Lo zio d'America
Quando tornava lo zio d’America era festa. Arrivava con i cuginoni, alieni seppur coetanei di mondi in cui tutto cresceva a dismisura, strade, palazzi, parenti e ciuingam (da noi gigomme per assonanza). Niente a che vedere con le misere striscette brooklyn che si trovavano qui, erano palle da biliardo con la crosta di zucchero rossa, verde e giallo tossico, che ci stavi un intero pomeriggio a ruminare. A farne fluorescenti bolle fuori misura per l’invidia dei compagnucci sottocasa. A volte portava con sè la zia -ona anche lei come il resto -, a volte coimmigrati della medesima stazza, in cerca di una sposa da riportarsi a lievitare nel favoloso extralarge d’oltreoceano. A volte si preannunciava con un nunzio, prossimo di parenti emigrati, che passava l’intera vacanza come tutti i nunzi, nell’estenuante processione parentale, a portare, come un piccione senz’ali, messaggi e dollari dentro bustone di carta gialla. Quando arrivavano era natale fuori stagione: la sera a tagliare scotch, a scartare magliette e jeans da ristringere, stoffe kitch psidelico da ritagliare, scarpe da ginnastica. Fino a raschiare il cartone con l’aspettativa negata, perchè mai non un robottino, un trenino, una macchinetta radiocomandata. Che farsene di un mondo fantastico se mandava solo cose che qui c’erano e già a misura?
A volte chiamava al telefono un altro zio di qui che ne possedeva uno, che a sua volta andasse ad allertare i relativi per trovarsi, fuso orario considerato, tutti all’appuntamento vocale la tal sera. Assiepati nel corridoio attorno al catafalco nero pronti in fila allo squillo per i quindici secondi di cornetta:
Ellò, come stai, che dici, che fai, sbrigati che costa. Sembra che staiqqui, ti sento vicino vicino.
Quando toccava a me -tieni saluta zio- mi assalivano brividi di eccitazione. Doveva pur esserci un trucco in quell’apparecchio nero da scatola-gioco di Silvan: forse lo zio era dietro la porta che faceva scherzi o forse, nella terra delle meraviglie, si era trasformato nell’uomo-gigomma per rintanarsi, ridotto a palla filamentosa, nella scatola del telefono.
A volte, quando arrivava, si andava a prenderlo baracca e burattini a Fiumicino, perchè lo zio, in quanto d’america, seppur partito con la nave, ora volava in aereo. Si partiva all’alba come Heidi con la carrozza del nonno: l’interminabile Tiburtina salutava i monti, i boschi, la pianura, le pecore, i panini con la frittata a Magliano, la grande circonvallazione romana e l’areoporto. Per i due minuti spiaccicato al vetro, a salutare tutti gli zii, le zie, i cugini e le valigie che l'uccellone americano espelleva dalla scaletta. Per finire, dopo i riabbracci che facevano piangere perfino gli zii che non ne erano notoriamente avvezzi, in una fraschetta dei Castelli con le frittelle di baccalà e la porchetta. Una storia in bianco e nero, uguale a quelle di Sordi e Manfredi. Ai più può sembrare preistoria, flash rimossi da vite parallele, ma era qui nemmeno quarant’anni fa, quando la provincia del meridione era terra di partenze e non di approdi. Non ci venivano certo cinesi, albanesi e rumeni a cercare futuro, eravamo noi che scappavamo - come la madonna a pasqua - verso promesse diverse. A fare altrove quello che oggi fanno qui muratori, operai, pizzettari, fruttaroli e delinquenti stranieri. Nè più nè meno come loro, figli e nipoti di onesti o disonesti che spedivano scatoloni legati con lo spago e dollari. Che sono rimasti nel loro altrove con l’amore-odio per la terra lasciata o che, al contrario, vi sono tornati a investire i dollari accumulati fuori. Facendo -esattamente se non di più di chi è rimasto- il benessere che qui ci siamo permessi, anche grazie ai lasciti e alle regalie degli zii d’america.
Emigranti per genoma ieri e pendolari rom oggi, da sempre con le vite a cavallo fra universi diversi, oggi forse solo geograficamente più vicini o riavvicinati nella comunicazione. Promettiamo ai nostri cervelli più freschi speranze in altrovi lontani, mentre le mani e le braccia che abbiamo importato quando pensavamo di potercele permettere, stanno qui, rimpoverite a raccattare gli spiccioli per tornarsene a casa o, con noi, a sperare che torni non si sa che. Mentre noi sfoghiamo su di loro la paura del destino comune che pare attenderci, non sia mai assomigli alla valigia legata con lo spaghetto che abbiamo rimosso.
Perchè allora l’accanimento, verrebbe da chiedersi. Perchè non un mondo senza privilegi di nascita, solo uso di quanto c'è, che in fondo su questo pianeta niente è di nessuno. A mischiarci dovunque come evoluzione della razza suggerisce. Dove vivi è tuo. Magari utopico, magari evangelico, ma tanto il finale alternativo è questa tristezza, la puzza di implosione che questa tensione produce.