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Abusi


Certe volte prendono la forma dell’airone, o di qualche altra bestia, come le nuvole di Aristofane. Quando rincorrono velleità d’altro che non sono riusciti ad essere, una trabeazione classica, un porticato palladiano, una torretta toscana, un aguzzo tetto trentino, una scala acchiocciolata alla hollywood.

Ma il più delle volte sono scatoloni anonimi, lunghi o larghi, spesso balconati novanta centimetri tutt’attorno come a costringerci carcerati uno alla volta a passeggio nell’ora d’aria. Sul grigio di solito, con ricorsi a strisce bianche ogni piano casomai ad un osservatore sfuggisse che dietro c’è un solaio.

Certe volte invece è un maquillage pop di incompiuti artistici, un muro in tufo, un trancio di intonaco, un balcone senza ringhiera, una finestra si una no come la dentatura di un nonnetto la sera sul comodino. Certe volte solo promesse che non ce l’hanno fatta o, al contrario, scheletri di licenze consumate, di intraprese fallite, di eredi litigati, di mafiosi ingabbiati, come radiografie a raggi x di colpe incompiute, a futura memoria sul paesaggio innocente che francamente ne avrebbe fatto a meno.

A volte s’accostano capricciosamente l’uno all’altro, lotti parenti in lotta su tutto eppure ostinatamente appiccicati a contendersi una recinzione, una scolatura di tetto o di fogna, per risolvere alla bersagliera, nottetempo, con un dispetto in lamiera, un tamponamento furtivo, un cemento armato al figlio ormai grande.

A vederli fermi in coda sul cavalcavia del grande esodo chissà perchè tutti nella medesima unica settimana, interi insediamenti a gusto misto, come nelle yogurterie in franchising che nel tempo diventano succursali di città a mare, a valle, di sotto o di sopra.

Espansi come la schiuma in un foratino o come un’acne ormonale, a vulcanetti di sebo su ex spiagge, dune, pinete, foci, lungofiumi, boschi, vallate, isole e vulcani. Che a portargli i servizi che poi pretendono mentalmente srotoli, tamburellando nervosamente sul volante rovente, chilometri di condutture, cavi, asfalti, depuratori e bus, toglisabbia, levafango, mettisale e tendopoli post catastrofi, attraversando fiumi, mari, pendii e scondiscendimenti. Mentre scorrono nel retrovisore del pagherò bollettini di tasi, tarsu, imu, ici, che ti toccano al rientro nonostante non possegga o abiti o abbia mai costruito nulla che pretenda opere pubbliche milionarie. Certe volte invece restano isolati, lontani dai simili per fare ognuno come gli pare, a contendersi certe visuali con una torre normanna, a violentare con un fallo scatolato un borgo antico disteso su un pendio, a occludere la vista su un golfo, a tagliare in due una spiaggia. O più spesso sparpagliati nella campagna, lì dove insisteva la parcella catastale ereditata dagli avi, così che a guardarli dal viadotto sembra che un angelo dispettoso si sia scaccolato fra le nuvole e ce l’abbia sparate. Nemmeno che si godano il paesaggio, preferiscono arrostire la brace stretti sul balcone, dentro una veranda anodizzata, sotto un contenimento in cemento armato o un portico di eternit girato a nord. Sulla terrazza a strapiombo sull’infinito ci stendono panni, grovigli di antenne, parabole, localetti abusivi e unità esterne di trattamento aria. Certe volte sono villone di vip, politici e mafiosi, spaparanzate sull'intorno a recintarsi l’imprivatizzabile con mura ciclopiche, cartelli proprietà privata e telecamere telecomandate per mostrare chi ce l’ha più duro, nonostante nessuno nè tantomeno l’intorno si interessi alla competizione. Non che manchi la fantasia, anzi spesso ce n’è troppa, ma è fantasia sfigata, che si sforza di celebrare la passeggera potenza dell’abitante imbellettando l'aborto edile con il simil-qualcos’altro di pregio. Magari copiato al cinema, in viaggio o in foto, o affidato al parto dell’architetto di grido che nel giro vip sotto botta ci ha visto una nave, un castello merlato o una palazzetto coppedè con giardino incantato.

Chissà perchè - viene da chiedersi reinserendo la prima ad un’avvisaglia di sbroglio di coda - i nostri avi di un tempo non erano così cialtroni. Non che si preoccupassero di norme, regole o location mozzafiato, ma almeno nel celebrarsi eccellevano in capolavori. Sembravano preoccupati di guardarsi da fuori prima che dentro, edificando dimora, castello, villa o torre che fosse, perfino fabbrica, tonnara o rimessa agricola con la preoccupazione di cosa ci fosse accanto, dietro, sopra e sotto. Seguivano l’andamento di una pendenza, la linea di un paesaggio, la schiera su un fronte, la parabola del sole o svettavano senza lasciare niente fuori posto, chè si dicesse, allora e in futuro, che a farlo fosse stato un magnate, non un cialtrone. Poi d’un tratto, forse l’allargamento della ricchezza o il frazionamento del potere hanno dato la stura alla cialtroneria, immortalando al suolo il malinteso della Democrazia che ognuno per diritto naturale possa dire e fare a prescindere dall’interesse, utilità, vantaggio o danno agli altri e al paesaggio.

Che, al finestrino del grande esodo, è una lunga carrellata su vedute mozzafiato guarnite da estemporanei prodotti di creatività puerile, giustapposti a completare ciò che non ne avvertiva esigenza. A fine carrellata ti sale una voglia di ruspa risolutrice che però poi, a mente lucida, ti passa. Sai che non sarà mai possibile rimettere a posto le cose per sopravvenuti impedimenti, danni sociali e costi proibitivi e soprattutto perchè le case da noi sono come il porco, non si butta niente. Non è questione di legge, controllori o giudici, tutti nessuno escluso restano contagiati dalla medesima convinzione, della libertà del fare in casa propria a prescindere.

E’ un fatto di cultura, purtroppo, una di quelle cose senza bacchette magiche. Si risolve solo imparando da quanto c’è dai tempi di chi sapeva fare, che, chissà perchè, non è stato mai così cialtrone.


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