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SelfDisco

I cartoni delle uova su muri e soffitti -qualcuno diceva- isolavano e l’isolamento era esattamente quanto si voleva ottenere. Le lampadine rosse, blu e gialle pulsavano per miracolo elettrico al ritmo del subwoofer: si chiamavano non a caso psichedeliche sulle istruzioni del kit Scuola Radio Elettra che qualche compagnetto più tecnologico si faceva arrivare per posta.

Appesa al soffitto della stanza più grande, la palla specchiata rotante che il dj di Superclassificashow, di lì a qualche tempo, avrebbe indossato a passamontagna. Nei primordi era oggetto costoso. Cosicchè la creatività provinciale più intraprendente si era attrezzata con la credenza anni cinquanta della nonna - ormai in cantina per le provviste - da cui si staccavano ad uno ad uno, con meticolosa e sanguinolenta perizia, i tasselli di specchio. Intanto si era spellicolato il mappamondo regalo di infanzia, ideale supporto sferico su cui incollare i tasselli frantumati della credenza. Il manufatto risultante, antesignano di art attack, si fissava al giradischi portatile delle scampagnate vintage di famiglia, rallentando i giri del motorino, sempre grazie al kit elettronico ricevuto per posta. Se ne otteneva così una perfettibile sfera specchiata per ambientazione disco, parrocchiale e pallida imitazione del newyorkese Studio 54 su cui si favoleggiava ogni sera.

Al centro della parete il podio di “chi metteva i dischi”, il più delle volte tavolinetto di recupero impacchettato di carta argentata, cellophane e altri originali drappeggi da Ricotta, cartoleria di fronte al Comune. Sul piano, in mezzo al groviglio di cavi e doppie spine volanti, i due piatti rigorosamente col braccetto ad S, Toshiba, comprati -quelli per forza- con il crowd founding rimediato nel giro. Si, perchè i dischi si mettevano sui piatti. Uno a destra e uno a sinistra del vero attrezzo magico che il kit di Scuola Radio Elettra pubblicizzava in copertina: il mixer. Sfida per il compagnetto nerd tecnologico che l’aveva riprodotto senza timori: due potenziometri lineari, spia al neon, spina e interruttore, rubati di notte dai relitti delle Seicento di Stuzzitt, sfasciacarrozze dietro S.Francesco.

Gli scenari possibili erano essenzialmente tre: rosso psichedelico per i momenti dance, strobo allucinante rara chè saltava la corrente, e palla rotante + luce di wood per i lenti da rimorchio. Quando pian piano, se funzionava, nell’inversione al negativo prodotta dal wood che trasformava chiunque, belli e brutti, in una livellante massa bluastra di neri funky dai denti fosforescenti, la stanza si popolava di zombie famelici. Tanti occhietti luminosi assetati di ormoni che puntavano le malcapitate più precoci. Che, al negativo bluastro del wood, diventavano altrettanti bottoncini fosforescenti sulla scollatura che l’immaginario rimandava a ben altri turgidezze nascoste dal buio. Su cui la mano morta, incerta e goffa, avrebbe dovuto evolversi dalla schiena in un caschè improvvisato sui cuscinoni lerci a terra, col puzzo di umido che saliva dal pavimento. Come Tony Manero della Febbre del Sabato Sera sul sedile in pelle sotto il Ponte di Brooklyn.

Entrarci non era prerogativa di tutti. Bisognava essere di quel club- come si chiamavano-, rigidamente distinti per quartieri e appartenenza di tipologia e genere. I maschi almeno, che le ragazze, per tacito patto, erano ovviamente libere di migrare da un club all’altro. Era per loro che la creatività si spremeva in ogni meninge, come coi pavoni che mostrano la ruota più accattivante per non apparire sfigati senza club. Con quest’unica mission ci si impossessava del garage del parente, con la promessa -giuriamo su Dio - che, in un ipotetico poi, si sarebbe rimesso tutto a posto. Oppure della cantina in cui fino a qualche anno prima suonavano rock i fratelli maggiori o si incontravano le comitive di Ecce Bombo, le bionde trecce e gli occhi azzurri e poi.

Non c’erano certificazioni di conformità, licenze di somministrazione, veti igienico sanitari e acustici a garantire l’incolumità degli intervenuti. Il mondo fuori il club assisteva, sorpreso e impreparato, alle mode che cambiavano, contento comunque che la rabbia politica degli anni di piombo, tossici e terroristi potesse -se Dio vuole- sedarsi in un ballo di gruppo.

Per i ragazzini altro non era che una breve stagione di artigianale pulsione costruttiva in un mondo pret a porter, in cui, a differenza di oggi, l’eccitazione del fare poteva trovare una sua espressone. Fu dopo gli appassionati e impegnati anni dei dibattiti su tutto, uteri e capitali compresi. Fu prima dei centri di aggregazione giovanile che i comuni del giovanilismo buonista degli anni a venire avrebbero messo a bando, recludendo dentro il recinto delle buone maniere, delle convenzioni, nel box dei giocattoli, i piccoli. Come dare un muro ai writer, le chiavi della scuola per l’annuale occupazione autunnale. In mezzo, quella generazione di disimpegnati clubdancer che non ha fatto nulla di esaltante per essere ricordata, saltata a piè pari da quella precedente a quella successiva, oggi tra l’altro al governo. Però, a meno di nostalgie passatiste, quell’ansia di fare prima che di possesso e quel naturale self-making con cui conquistarsi quanto serviva, certo di questi tempi non sarebbe male.

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