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Cervelli viaggianti

Non capita mai di vedere un cervello in fila col trolley al check in dell’areoporto, un ammasso di gangli nervosi che si toglie la cintura al metal detector. Non te lo figuri ad addentare un fattoria da 5 euro seduto al bar dell’imbarco, passeggiare fra gli shop dei prodotti tipici, unici rimasti orgogliosi dell’attributo Italiano. Non ce lo fai a bestemmiare per l’ascensore rotto, trascinarsi la valigia nei sottopassaggi arrugginiti, sui tapis roulant scassati, fra cacche di piccione e mattonelle riappicicate. Fumarsi l’attesa nel girone in alluminio anodizzato dei condannati al vizio, in piedi fra facce annichilite e spaesate come in attesa in un reparto terminale.

Un cervello che fugge è ufficialmente un dato dell’Istat, il bollettino di Radio Londra che fa la conta dei caduti, una notizia utile per le campagne elettorali. Non ti fa pensare che attaccati ci siano un paio di braccia, due occhi, un fegato soprattutto - che per andarsene ci serve-, un cuore, che si spacca a metà. In ogni trolley sul nastro trasportatore c’è una storia unica, un patrimonio, un contesto, una famiglia, una comunità che ne farà a meno. Un’occasione persa per chi lo lascia andare, non per proiettarlo verso un futuro migliore - come sarebbe sano -, nè per incitarlo ad esplorare realtà diverse e farne tesoro, quanto perchè non gli lascia alternative.

Fuga, nell'accezione comune, presuppone una vigliaccata, il tentativo di estremo ripiego a una minaccia o a un mifatto, come un qualsiasi Dell’Utri nascosto in Libano, o uno dei tanti malfattori patri che scappa dalle responsabilità di averci ridotto in questo stato. Non si dice fuggiasco a uno che può permettersi di scegliere se andarsene o restare, se partire sapendo che può tornare in un qualsiasi momento: questi si definisce più appropriatamente uno che viaggia. Un cervello invece ufficialmente fugge e, fuggendo, fa numero. Almeno finchè compra il biglietto aereo perchè dopo sparisce dalle statistiche e dalle preoccupazioni collettive per ricomparire in qualche festa comandata, o nei voti spesso spesso astenuti degli italiani all’estero. A un cervello emigrato nemmeno il rimborso del biglietto per votare, o tornare costretto da forze maggiori: nessuno va a cercare un cervello per sapere come se la passa, dove sta, se ha imparato qualcosa che potrebbe insegnarci, inorgoglirci o farci vergognare di quanto fa. Dall’altra parte dove atterrerà un cervello emigrato non trova un mondo amico ad accoglierlo a braccia aperte, un fruttivendolo che lo conosce, un barista che gli chiede il solito?, un amico da chiamare, una piazza o un palazzo per orientarsi se si perde, una lingua o un gruzzolo che lo rassicuri, un’espressione degli occhi del prossimo che non ha bisogno di interpretare. Lo sconosciuto che ti guarda in un paese estero non è lui fra i due lo straniero, soggetto a regole e codici del suo paese, sei tu, cervello fuggito, l’alieno. Se ne vedono sempre di più di alieni nostrani fuggiti in giro per il mondo, alcuni soddisfatti e sicuri di non tornare nemmeno per editto, altri spaesati a desiderare un piatto di spaghetti, una passeggiata col figlio, una notte col partner. Tanti usano il cervello, altri le mani, le gambe, le spalle: ricercatori, imprenditori, professionisti ma anche sempre più pizzettari, operai, friggifritture, gelatai e commesse. Che nelle statistiche forse non contano come cervelli, ma hanno pur sempre un cervello, un fegato e un cuore. Si sottintendono giovani quasi per assonanza, ma anche questo non è vero. L’Emigrazione Reloaded di questi tristi anni Venti è trasversale a età, genere, provenienza sociale, cultura e formazione, urbana e campagnola che sia, ed è multidirezionale. Disseminati nel globo. Alcuni nei paesi di sempre, antichi paradisi di emigrazioni passate, più perchè ci sono parenti e contatti che perchè promettenti come un tempo. Altri vanno a cercare speranze nei paesi poveri che possono permettersi, per trovare fermento ricostruttivo, voglia di vivere, idee in contesti tutto sommato meno ostili dei nostri. Altri ancora vanno e vengono, senza fissa dimora pendolano in cerca di mercati interessati, per poi rientrare a fare numero fra i rimasti. Agli altri, gli ospitanti, i cervelli italiani sembrano alieni, dalle invidiabili doti creative sulle quali chissà perchè non si investe, e dalla misera e pittoresca organizzazione sociale, che diventa rischio da evitare in un contratto di lavoro. Non si fidano di noi, e perchè dovrebbero? Funzioniamo più nel malaffare, dove c'è da sfruttare un contesto o una situazione, truccare qualche giochetto, comprarsi qualcuno: lì nessuno si fa scrupolo a fidarsi.

Ma comunque, qualsiasi attività faccia, qualunque parte del corpo usi, qualunque la provenienza, l’attitudine, il tempo di permanenza, la gravità del malaffare prodotto o l’occasione che se ne potrebbe trarre, per un cervello in fuga una sola cosa è certa: il suo Paese dietro le spalle non c’è, se l'è dimenticato. Giusto il tempo di contarlo. Nemmeno un misero ufficietto della Camera di Commercio che raccolga le richieste e, sul numero, rimedi dalle compagnie uno sconto sui biglietti.


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