Monetine al Re
Io c’ero e pure per un accidente della sorte. Un mio amico lavorava al Raphael e quella sera ero lì proprio mentre rientrava, imponente, con la corona, lo scettro e il mantello leopardato, come lo disegnavano Disegni & Caviglia. Scendeva dalla carrozza blu, protetto dai cortigiani fedeli ancora per poco, con in faccia però il presagio della capitolazione, dello svestimento che si sarebbe di lì a poco consumato.
Stavo assistendo alla disfatta di un Re, perché Bettino Craxi è stato un re. Ne aveva la statura e la corpulenza, l’acutezza di pensiero, la visione, la presenza scenica. Se era stato un avversario, certamente un avversario che valeva la pena combattere, se era stato un capo non uno spacciatore di miracoli montato da uno spin doctor come un detersivo. E il crollo di un re, pensavo mentre scendeva dalla carrozza blu, non è storia di tutti i giorni. Ciclicamente succede, ma sempre più di rado. Io non lanciai monetine, però gridai buu, unendomi al gregge dei contestatori che l’aspettavano nel giorno dell’accusa. Non che quella manifestazione di impeto popolare fosse ingiustificata, avevamo ingoiato in tanti pesanti sconfitte, sottomissioni e avvisaglie di decadenza, arrivando ad odiarlo e amarlo come succede con tutti i più acerrimi potenti, ma la rabbia che si sfogava puzzava di frustrazione per una vittoria ai rigori, per mano della Giustizia Provvidenziale che si compiva sopra e nonostante tutti.
Non eravamo stati noi a spodestarlo, ancora una volta nella Storia, ma lo stesso sistema che il Re aveva voluto e generato, che aveva creato il virus che l’avrebbe divorato. Vero è che quella sera il Re non era ancora nudo, si sarebbe spogliato di lì a poco scappando in esilio come nelle migliori tradizioni regali. Bisognava farsi sentire, tirarlo fuori dalla carrozza ancora freschi di notizia, prima che organizzasse una difesa, aggirasse l’ostacolo e tornasse sul trono. Ma la folla assiepata sotto l’albergo, munita delle cento lire da lanciargli, non era il popolo: somigliava più alla corte di eunuchi che arrivava a congiurare a carte spaiate, a defenestrare il tiranno già sul parapetto con le persiane aperte, quando, come si dice, so’ bravi tutti. Per questo ogni volta che ricordo quella vicenda resto sospeso fra l’imbarazzo del giustizialista dell’ultim’ora che si unisce al gregge infoiato e l’eccitazione di aver partecipato ad un passaggio della Storia, come ne accadono di rado nel Paese del trasformismo da lenti camaleonti. Mentre assistevo imbambolato al linciaggio monetario il rigurgito di educazione da cinque maggio manzoniano e la storia dell’ardua sentenza dei posteri rimbombava nella fatidica domanda, quella che in certi casi ricacciamo con un battito di palpebre: ma io dov’ero fino ad ora? Dove mi ero rintanato mentre il regno andava a puttane? Quante volte mi ero seduto al banchetto, magari imbucato, magari per caso, a bere di soppiatto il prosecco dal vassoio di argento?
Se stavo lì, per la proprietà transitiva in una vita precedente avrei portato la cesta per la capoccia mozzata di qualche ghigliottina? Avrei dato una mano a lavare il sangue dell’ossequio popolare in un qualche piazzale loreto, smontato, a festa finita, il palco del patibolo per calare l’ex potente appeso al pubblico ludibrio.
E’ un dubbio che riaffora ogni volta che la Storia si ripete, quando un re capitola e la corte - per quanto diversa nel tempo, nei costumi e nelle sigle- si presenta puntuale alla resa dei conti per contendersi i gioielli reali nei cassetti e sotto i materassi prima che l’orda da fuori giunga a farne bottino, quando basterà saltare, con abile gioco di gambe, sul carro del neo vincitore. Silvio Berlusconi è finito come Bettino Craxi prima di lui dall’esplosione del sistema che avevano entrambi rappresentato, prima che generato. Disarcionati dalla congiura dei luogotenenti più che dalla riprovazione popolare che si è limitata, ancora una volta, a riapplaudire la proclamazione del nuovo re. Berlusconi non ha avuto, mi si consenta la metafora, la statura di Craxi, la sua decadenza di conseguenza è più sbiadita, la sua condanna all’ospizio dove contare la lenta emorragia di accoliti e consensi non è certo l’esilio che si riconosce ai re.
Grillo non è Mariotto Segni e Renzi, acclamato con numeri da suffragio, non è il Berlusconi del 94, che imbastiva dalle ceneri del predecessore la trattativa coi poteri corrotti che l’avrebbero oggi ripudiato, per cambiare bandiera e salvarsi il posteriore nel giorno del giudizio. Ma, a meno delle congiunture e della statura dei re sempre più ridotta, la certezza che si consolida è la stessa: per una massa che si fa portare a spasso c’è sempre una combriccola che se ne bea. Finchè arriva un’altra combriccola, sveglia la massa aizzandola contro la vecchia combriccola e arrè, come dicono i siciliani, si ricomincia daccapo.
L’unica soddisfazione di qualche neurone spurio nella massa plaudente è capitare nel momento del cambio della guardia per assistere alla Storia. Tanto per posare temporaneamente a terra la gobba che pesa dietro la schiena, asciugare il sudore e gustarsi, a bocce ferme, lo spettacolo dell’intervallo.