Boh
Saremmo stati ricchi e potenti, proprio noi, non a caso detti figli del boom. Così ci accolsero all’Università: ma quale Architettura e Umanistica, Economia dovete fare, Ingegneria al massimo, manager di voi stessi prima di tutto, abili nella Comunicazione, ad aggredire la concorrenza globale delle valli di silicone che si pompavano oltre oceano. Giurisprudenza, per restare in patria, perchè dove c’è ricchezza c’è contenzioso -e fregature-, mecca per gli avvocati che si raccoglievano incollettati coi sigaroni toscani e lo scooterone davanti al Tribunale, nel rimpappismo della Grande Sola italiana.
Era la fine degli anni 80, lo yuppismo dominava, le bolle finanziarie ribollivano, i commercianti svuotavano ogni sera le sacche nella cassa continua della banca. Il debito pubblico cresceva lontano dagli occhi e dalla coscienza, mentre guardavamo Milano, capitale della nuova euforia, che si beveva rigorosamente all’ora dell’aperitivo.
Il dictat imperante, sfondare, non importava cosa nè come o dove, solo quando, cioè ora, e in fretta.
La cocaina volava nell’aria come se la spargessero dagli elicotteri, in un Apocalipse Now senza guerra, piste e strisce pedonali di polverina magica ad eccitare gli istinti più onanistici: più ne girava, più l’illusione di potere e l’ansia di affermazione si impadroniva di tutti. Nella Grande Competizione in cui vincere era una chimera, la follia collettiva imponeva di esserci, fosse solo comparse, nella Grande Guerra senza alleati del tutti contro tutti.
I pentapartiti si spartivano finanziamenti e commesse, anche quelle del centro che cantava Luca Carboni, si dividevano i dividendi e si sistemavano il più grasso e finto sistema di emorragie che ancora stiamo pagando. Nell’orgia collettiva nessuno voleva sapere, si entrava nella dark room a occhi bendati: danti o riceventi l’importante era stare nella lista vip, cinque minuti di privè a bordo pista non si negavano a nessuno.
Noi, rimbambolati figliocci di quegli anni, buttati a spinta nella mischia come nella vaschetta del minipimer, a girare vorticosamente per anni nell’impasto. Abbiamo ingurgitato cocktails di ogni tempo, gli Alexander, i Bloody Mary, i Negroni, i Mojto fino agli Spritz in attesa della festa, per sentirci domandare, a gastrite inoltrata, ma l’attesa del piacere non è essa stessa il piacere?
A guardarci oggi, a motorino del minipimer ingolfato, facciamo più rabbia che pena. Rimbalziamo ancora sulle pareti della vaschetta, ad aspettare l’attesa del piacere che è essa stessa piacere, nel capogiro di confusione del fine girotondo, ancora sotto inerzia da forza centrifuga.
Non abbiamo capito assolutamente niente di nulla, a ben guardare, soprattutto che la spensierata adolescenza che ci siamo potuti permettere mentre i nostri genitori ci indebitavano, non era la vita, nè una stagione della vita, quanto piuttosto una disastrosa balla collettiva che ci raccontavano omettendo quando e quanto avremmo dovuto ripagarla.
Ognuno concentrato sulle proprie ansie prima e sulle proprie depressioni dopo, esperti delle cause e delle assenze che ci spiega l’analista, ciascuno il suo, come un cane, una tossicodipendenza, o come una volta il prete che almeno ci salvava al confessionale con due pater e un gloria.
Sospesi per vent’anni in attesa di un ritorno, appesi all’illusione spacciata dalla follia collettiva prima e dal mago dei miracoli subito dopo. Quando, dalla tanto decantata decapitazione di Tangentopoli che non c’è mai stata, apparve, cresciuto e pasciuto in quegli anni, il Cavaliere che avrebbe rimesso indietro la lancetta del tempo ributtandoci nella Grande Orgia, solo provvisoriamente limitata al suo idromassaggio ad personam.
Come Totò che si stropicciava gli occhi, riadagiandosi a letto per tornare a sognare il bel sogno che stava facendo prima di essere fastidiosamente svegliato. Se dovessero intervistarci uno ad uno, noi, i primi peter pan della Storia, la più numerosa generazione mai prodotta dall’Occidente, i figli del Boom di cui ancora soffriamo l’eco, se dovessero domandarci ora che si fa, la risposta sarebbe unanime:
BOH.
La grande epocale evoluzione che ci avevano promesso si è rivelata in questo monosillabo dal suono gutturale, dagli anni del Boom in cui siamo nati agli anni del Boh in cui siamo finiti, in un incosciente dormiveglia a inseguire chimere che a domandarcelo, in fondo, non sappiamo nemmeno dire quali siano.
Negli anni del Boh vige un’aria da resa, un istinto da ripiegamento, seppur coscienti che nessuno può permettersi in questo momento un ripiegamento. Se un tempo l’illusione era girare il mondo nei brand internazionali che ci stavano cercando, oggi, a disillusione ormai cronica, comincia a vagheggiarsi l’impeto al ritiro bucolico. Che sempre un ritorno è, ma stavolta meno stressante, meno competitivo, meno cocainomane.
Un ritiro che però pretende il panorama, il pannello fotovoltaico, l’orto biodinamico, l’adsl flat e perciò altrettanto illusorio. Perchè nel frattempo, nell’estratto conto rosso come le passioni operaie del comunismo borghese che ci infiammò, la finanziaria, il mutuo, le bollette, le tasse e l’affitto ci tengono ricattati, incastrati nell’ingranaggio del minipimer come i pezzetti di frutta quando fai il frullato, che devi portar via con la spugnetta attento a non tagliarti le dita.
Quale che sia il futuro della generazione del boom arrivata al fatidico momento del boom, incapaci di interpretare oggi e domani e tenacemente avvinghiati a ieri, schizzando sparuti nella vaschetta del minipimer, cullati dal ronzio del motorino che perde colpi e puzza di bruciato, in attesa del dito ex machina che rischiacci lo Start.