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Modernizzazione e Camouflage

Modernizzazione non può dirsi parola rassicurante. Già nel suono, lo stridore degli ingranaggi arrugginiti, i martelli che menano gli incudini, le sirene che strillano. Gli stivali di The Wall, per chi ce l’ha presente, che marciano. Non dovrebbe essere così, a rifletterci. In fondo è auspicabile l’adeguamento ai tempi per una proiezione ottimistica verso il domani. In fondo il Futurismo a cui rimanda è stato l’ultimo movimento di tensione e fiducia verso il di là venire nel nostro Paese assopito. Da allora, a parte singole eccezioni negli anni 60-70, il Paese si è ripiegato sul suo passato limitandosi a idolatrare, copiare, ribadire o– scusate, lo dico - “contaminare” quanto era stato detto e fatto prima. Nelle sue massime espressioni culturali come nelle sue attitudini peggiori, nei suoi vizi e nelle sue tendenze suicide. Oggi tutto si può dire a questo Paese tranne che è moderno. Siamo antichi, ma nel senso meno nobile: invecchiati, maltenuti, deteriorati, decaduti, rassegnati, intristiti. Diffidenti del domani e impauriti di ciò che potrà esserne. Come sa bene D’Alema, intercettato viticolotore, non siamo stati come il vino che invecchiando migliora, più un novello, che alla lunga è andato in aceto. Ingrigite le nostre città congelate in musei senza budget, rovinati palazzi storici e pessime periferie, asfalti che si sfondano, tubazioni che esplodono, contenimenti che cedono, cornicioni che si scrostano e precipitano. Se al posto di un palazzo decrepito se ne vuole rimettere un altro, apriti cielo, si grida in coro alla speculazione, al cemento selvaggio, agli interessi deviati, alle disastrose mutilazioni del paesaggio. Certamente a ragione, va detto, siamo ben consapevoli per comprovata esperienza di quanto puntualmente si verificherà. Fatto è, però, che nel frattempo è morta la speranza, la propensione a credere che da un progetto qualsiasi possa ottenersene un miglioramento qualsiasi. Basta vedere che fine fa l’Expò. Che ereditiamo dall’800, quando si faceva a gara per presentarsi al mondo con il livello più avanzato di sviluppo e conoscenze, finito in vergogna prima di cominciare. Vecchie le logiche e le velleità truffaldine, vecchie le pezze a colori con cui coprire la vergogna. L’hanno chiamato camouflage, il mascheramento posticcio infiocchettato di cheffismo francese, a metà fra un carnevale e una torta lievitata. Ma è solo il prodotto dell’approssimazione nazionale, la scimmiotteria con cui ci rappresentiamo al mondo, rassegnati a essere, nel camouflage come nell’approssimazione, primi senza pares. Non se ne può più, questo è il punto, di rimestare nel torbido che puzza di stantio. Rifuggiamo con lo zapping schizofrenico le intercettazioni del giorno, che non potrebbero dirci più di quanto già sappiamo: Il paziente giace allettato alla flebo, che è solo questione di tempo. Deve essersi sparsa la voce però, perché la Modernizzazione è diventata la nuova urgenza nell’agenda delle urgenze, con soluzione a breve termine, con tutti gli immaginabili vantaggi che la modernità saprà offrirci. Chi direbbe no? Se non fosse che la Modernizzazione contiene in sè una contraddizione, che la si evochi è già un fallimento: non si può calare dall’alto come un telo di cellophane per nascondere la polvere, non funziona il camouflage. Un Paese è moderno se sta nel suo tempo, anzi semmai l’anticipa, immaginando cosa potrebbe essere in prospettiva. Se questa tensione manca, se non c’è alcuna risposta alla domanda: per fare che?, la modernizzazione che si impone, puzza. Soprattutto se a farla sono decreti di un governo d’incontrastata emergenza, in un parlamento residuo di vecchi rimpasti, la cui unica velleità è stare. Con colpi d’accetta urgenti e frettololosi si amputano gli arti insieme alla necrosi, che intanto si è già diffusa ovunque. Cosicchè la Modernizzazione diventa una rinuncia più che un investimento, in nome del progresso si perde quanto c’era di buono in vista di un chissàcchè da venire. Come se, improvvisamente, ad essere invecchiati siano i principi e i diritti, non il malaffare che li ha corrotti. Così il suono della parola perde il fascino elettrizzante che doveva avere nel Novecento, quando il rumore del motore eccitava gli animi, diventa la solita routine di pezze a colori e camouflage. Il Futurismo scrisse il suo Manifesto nel 1921. Ma non fu un decreto imporlo: c’era un pensiero a sostenerlo che covava da anni sotto la cenere, fino a pretendere la sua stessa esplosione. Fu dopo, semmai, che il potere fascista lo fece suo per imporre la sua modernizzazione, piegandolo alla sua stessa contraddizione, rovinandolo nella corruzione. Deve essere stato allora che cominciammo a invecchiare e, a parte qualche rara botta di vita, non smettemmo più.


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