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Capodanno

Appuntamento alle 20,30, l’ora più infausta per uscire il 31 sera a Roma. Ai ritardatari delle ultime cose in vista della fine si mischiano quelli che stanno per andare dove debbono andare, in un girotondo di clacson, anticipi di botti e sirene di ambulanze pronte al peggio nella nevrotica tensione della fine ormai prossima. Mai come quest’anno chiudendo il portone verso l’amico che mi aspetta giù di sotto, la netta sensazione della strada vecchia da non cambiare, che sai quello che lasci, casa riscaldata, gatti impauriti e albero intermittente, ma non cosa ti aspetta. Seppure per esperienza, facile da prevedere. Ripercorrendo a memoria gli ammenicoli irrinunciabili di una fine, chiavi, portafogli, telefono, spumante e torta rustica, ti chiedi per l’ultima volta sull’uscio perchè non te ne stai buono e tranquillo nel rifugio conosciuto che, fra tanti difetti, ha il pregio di essere conosciuto. Ma poi ti dici che no, non puoi isolarti dal consesso umano cui appartieni, che almeno le prime ore del nuovo anno siano uno sforzo verso gli altri, premessa di rinnovate comunanze e promettenti occasioni. Non siamo monadi isolate in questo mondo, perbacco, e solo l’anelito che ci porta verso gli altri ci riscalda e consola del male di vivere. E nulla può cambiare nel solito minestrone se non si esce dal baccello, buttandosi nella pentola che bolle. Gli Altri che ci aspettano nella casa dello sconosciuto ospite- convinto chissà da che, forse dallo stesso mio impeto sociale, a sacrificarsi per la gioia collettiva-, vagano sparsi nel tavernone addobbato a festoni e lucine, in attesa che si completi la lista degli invitati. Contano ad ogni squillo del citofono quanti come me si imbucano all’ultimo minuto, eccitati di aspettative illusorie, una quarta coppa b o una giarrettiera rossa che possano svoltare, almeno in controluce, il trenino bacchico della mezzanotte. Per deludersi puntualmente ad ogni intervenuto abusivo, snobbandone il dono chiaramente rimediato in extremis: una bottiglia di Cinzano sgasato, un panettone spaiato da un trexdue, una crostata preconfezionata ancora sigillata. Consegnate le vettovaglie all’ospite che, ringraziatomi, esce a buttarle nel retro cucina, mi infilo nel climax di patatine e olive neroverdi apparecchiate sul tavolone imbandito a festa. Ricevo da una generosa volontaria il piatto di carta rossa equo e solidale da completare a piacimento – mi suggerisce- con tortine autoprodotte ancora filanti. Battutine di situazione su quanto può accumunarci cercano di creare l’intimità minima per un festeggiamento da condividere: questo maledetto anno finalmente alla fine, il tempo improvvisamente impazzito, le ultime di conoscenti sequestrati da autostrade innevate, le favolose feste di capodanno della giovinezza. Mentre il Presidente della Repubblica, visibilmente provato dalla sorte che lo congela suo malgrado sulla poltrona, ci saluta dallo schermo della stanza a fianco, fra gli schiamazzi esagerati dei pochi bambini, segregati come cuccioli da zoo nella cameretta vestita a festa sotto lo screening ansioso dei genitori. A fare una panoramica dalla poltrona del camino, una cinquantina di sconosciuti gli uni agli altri, avanzi di comitive evidentemente spaiate per ragioni diverse, ma che comunque ci hanno condotti tutti qui, a celebrare la fine nello sforzo di una convivialità originale di propositi, apertura al prossimo e all’insondabile venturo. Ma già a metà serata, quando vino rosso e gorgonzola cominciano a mischiarsi su per il reflusso gastrico, la folla si frammenta in angoli sporadici. Inginocchiato alla presa del caricatore - non sia mai il cellulare si scaricasse perdendo l’ultim’ora di chi per ragioni diverse è altrove -, ognuno sta solo, piegato alla smorfietta che accompagna il ticchettio sul whatsup, l’emoticon facciale che puo' essere pupattoloso, rimbrottante o smarrito, o anche nervoso e incazzato. Se non perfido, nel digitare un sms dispettoso e bugiardo, tipo: non sai qui chi è entrata ora..., a voler significare che la personale scelta di fine anno è stata la più azzeccata. Che qui, ragazzi, è tutto un altro mondo, come dimostra il selfie ritagliato a mestiere su una fiammata del camino o su un quarto di coscia scoperta appena sotto un fondoschiena ormai appassito, rigorosamente fuori inquadratura. Poi, improvvisamente, nell’intreccio di tvb che intasano l’etere, l’iperattivo ospite organizzatore di goliardie richiama la concentrazione sul conto alla rovescia, tuonando come un campanile la domenica pomeriggio il fatidico scocco. Per spingerci infine tutti al falò allestito nel giardino, a meno 2 gradi, non curante dell’umidità del Tevere che pare il Tamigi, che qui a due passi promette terribili cervicali al capocollo. Il fuoco è magico. Tutta la mia gratitudine va al primate mio antenato che lo scoprì svoltando la vita di noi discendenti, soprattutto nelle mezzanotti di fine anno, che chissà come risolvevano prima nel gelo senza conforto dei secoli bui. La luce incandescente della legna attizzata arde più della notte di San Lorenzo di desideri segreti, più di un pellegrinaggio nella Grotta di Lourdes, di una scatola di baci perugina. Rende più sentito il conto alla rovescia che sale al cielo sempre più autoconvinto man mano che ci si avvicina allo zero, salutando il sorgere del nuovo anno con cassetti rigonfi di speranze e di sogni. Ma sono sogni single, troppi e troppo specifici per sperare in una riuscita globale, come in una tombola sovraffollata la cinquina con una sola misera cartella. I bambini più intraprendenti, aizzati da padri focaioli, ripiegano sui botti, simbolica distruzione dei guai passati, a ogni colpo un vaffa all’anno che agonizza, finalmente. Incitati dalle grida sempre più allargate dei presenti, sii, dai, toh, vaf, ohh: tutti d’accordo sul passato da dare al rogo, sulle miserie, le disgrazie e i sacrifici da scongiurare. Ma è sul futuro, purtroppo, che restiamo incerti, impreparati a un gesto, a un’azione o un indirizzo condiviso. Nemmeno la pista dance allestita nel frattempo nella sala riesce a convincere i più a lasciarsi andare, nemmeno il richiamo del rito collettivo più immediato e istintivo coinvolge l’unanimità. Spaiata e confusa a singoli e gruppetti la folla della fine si sperde sui personali bilanci, sulle singolari promesse e sui particolari obiettivi. Quando, nel cerchio attorno al fuoco che l’umidità va pian piano smorzando, sbucano di soppiatto i primi bonghi, si sfodera una chitarra, si spoglia una fisarmonica e nel buio una voce si leva coraggiosa sulle altre, liberando nella nebbia fumetti di goliardia patriottica. Che ci riconosca finalmente tutti, nel Paese spaghetti, mafia e mandolino, in un coro unanime, un fratelli d’italia spensierato e appassionato: Stringiam-ci a coorte, siamo pronti alla morte, l’Italia chiamò.


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