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Le scarpe delle donne

Premetto, amiche donne, riferimenti a persone e fatti puramente casuali e soprattutto limitati alle esperienze personali, assolutamente singolari, senza alcuna pretesa di universalità o di rilevanza statistica. Ciò premesso, mi è capitato ripetutamente nella vita di accompagnare donne di ogni età all’acquisto di un paia di scarpe e quindi ho una certa prossimità al rapporto che lega le una alle altre fin dagli esordi.

Da giovinetto recalcitravo, crescendo invece ho imparato, tanto che c’ero, a valutarne personalissimi tornaconti, tipo godermi via via sempre più rapito la relazione che si instaura fra loro, fin dai primi approcci. Nei tempi del Consumo però i fashion shop ti accoglievano sul puffone centrale, dove condividere con gli altri accompagnatori un bambino da reggere, una borsa, un guinzaglio. Nell’era della Crisi invece l’unico appoggio lo stand della candeggina -stai qui e guarda la borsa-, dal Cinese, neofita vittima e carnefice delle nostre donne da quando si è sparso il mito del low budget giallo. Perchè dal Cinese a poche decine di euro puoi prenderne due o più paia, addirittura le stesse e di colore opposto, tiè.

Alla peggio le butti, per quello che costano, invece di lasciarle a ribollire fra i sensi di colpa nell‘angolo della sospensione, dove macerano accatastate insieme alle risposte mai date, alle amiche interrotte, ai ricordi in standby e ai vari zombie della memoria. Così l’originario angolo si evolve complicandosi in figure chiuse e dalle dimensioni progressivamente crescenti, triangolo, quadrilatero sghembo, rettangolo, fino al solido come un gas in una qualsivoglia cubatura, senza che ci sia mai contezza - a un dato tempo zero-. del numero esatto di calzature in casa.

La relazione fra la donna e le scarpe è bulimica, ma sinusoidale nel tempo, a frequenza variabile. Evolve con stati d’animo mutevoli, a volte contrapposti, secondo un percorso altalenante di attrazione - repulsione, quando si sta bene bene piuttosto che quando si sta male male. O solo, a volte, quando si è un po’ così. Quando arriva un compenso, una festa, un’eredità, così come quando la disperazione dell’attimo fuggente lo pretenda, andare a comprare un paio di scarpe è rito espiatorio.

Noi maschi, per capirle, abbiamo una reazione vagamente assimilabile quando passa una minigonna. Ma a noi l’impulso è binario, on-off, passa minigonna - gira testa, si accende per spegnersi nel traffico che la inghiotte, restando per sempre esclusivamente monodirezionale. La loro attrazione, al contrario della nostra tara, è multiforme, si evolve nel tempo assumendo caratteri di seduzione e reciprocità, fino a sublimarsi in empatie contrapposte:

Nooo, sto male a vederle ridotte così / queste le butto le ho sempre odiate.

Un po’ il ruolo del tamagogi. Una sorta di capro espiatorio di ogni stato d’animo, ma, a differenza del tamagogi, per sua natura masochista, la scarpa ha un ascendente sadico sulle nostre donne che a volte arriva ad umiliarcele e poi a deprimercele.

Guarda che schifo di caviglie che mi fanno.

Certo è che, costringerle dal Cinese, fra gli stand delle pentole, i sacchi di carbonella e le radioline a pile, nell’unico rappezzo di pavimento occupabile, a piede scalzo sollevato in attesa del numero giusto dal magazzino, ci si stringe il cuore. Quando all’improvviso, dall’infilata di sottovesti appese, come Bruce Willis sotto il fuoco avversario - coprimi ora!-, saltano fuori per avventarsi sull’unica striscia di specchio, conteso con le altre, - ovviamente stronze - che zompettano in fila dal primo pomeriggio.

Le madri, ce ne sono a qualsiasi età, fanno capolino a tratti nello specchio, commentando a raffiche di ferocia uterina o di lamento cantilenante ogni scelta improvvida della figlia. A rappresentarle l’altra coscienza, altra rispetto alle dozzine interne, quella che tiene a bada i capricci bizzarri e i colpi di testa. Da lasciare a casa però in quei giorni, quando, intenzionate esattamente al colpo di testa da ragioni insondabili, fuggono furtive in un flirt esclusivo a tu per tu con l’usata vetrina per la scelta più pazza che si sarebbe sempre voluto fare.

Tanto costano 15 euro.

Ma la figlia del Cinese sotto casa, ragazzetta emo con calzettoni e zatteroni neri, risponde a qualsiasi sollecitazione con immutabile smorfia manga, - tipo la cinesina cattiva di Kill Bill -, accoglie inanimata le domande, le ragioni, le confessioni, i traumi e le temibili rimostranze delle sue clienti solitarie. E’ di seconda generazione lei, ormai travasata, compatisce la madre invidiosa che traballa incerta su quel vezzo occidentale ai piedi come una matrioska su una spilla da balia.

Ma quando, nonostante l’inanimata indifferenza emoasiatica, ogni pregiudizio, ogni limitazione e ogni senso di colpa è fugato e finalmente lo specchio è guadagnato, tutto il resto scompare, gli stand, la madre cinese traballante, le torce a risparmio energetico, le stronze che copiano, e l’immagine allo specchio, -che somigli a Audrey piuttosto che a una matrioska- diventa un’aura di luce nella zucca che incornicia il mondo attorno a quella caviglia.

Che si piega, si distende, si solleva, rotea, chiosata da smorfie altalenanti e faccette da principessa, fai un inchino, fai una giravolta, rendendocele tutte, seppur invertite nel riflesso, meravigliose Cenerentole. Solo che al neon cinese e sotto le fruttiere in plastica e carta igienica, mentre le mutanti vip in silicone slabbreggiano scomposte dalla tivvù sullo scaffale, Cenerentola sbiadisce.

Con il ritorno del vecchio senso di colpa - adesso che pure ‘sti stronzi hanno alzato i prezzi - , svilite con imitazioni di vezzi che ci appartengono di genoma ma che ci facciamo produrre negli scantinati globalizzati, con l’ossessiva cantilena di sottofondo che mortifica ogni entusiasmo peggio della mamma lasciata a casa -c’è la crisi c’è la crisi-, le nostre donne si sono depresse. Frustrate e svuotate di desiderio, accennano un sorriso rassegnato all’allivedelci-allivedelci della traballante matrioska alla cassa, e con un malinconico - no grazie, ci penso - si chiudono la vetrina alle spalle. Non ci importa di non consumare a noi ex consumatori, ma le scarpe no. Ridateci le scarpe, ridateci le donne.

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