Je ne suis pas Charlie
Giorni fa una musulmana mi ha chiesto l’amicizia. E perché mai? mi sono chiesto d’impulso, con la coda di paglia issata, avrà letto qualche mio post inopportuno sull’Islam? Perché, ne ho scritti? Sono corso a scorrere la sua pagina cercando conferme ai sospetti: i suoi contatti, ovviamente a lei simili, si scambiano il link del Je ne suis pas Charlie, Io non sono Charlie. Che certo non mi è sembrato buon inizio. Non tanto per il contenuto, che sui social nulla e tutto scandalizza, quanto perché, postato da un musulmano, tutto fa un altro effetto. E certo, in questo clima di chivalà, non sei portato a scommettere sui buoni propositi, ti accontenti dell’ipotesi più immediata, l'interpretazione che ti suggerisce l’ansia dominante. Mi sono visto così nel film paranoico autoreferenziato, inseguito sotto casa, braccato sul portone, narcotizzato, caricato su un furgone sfondato e risvegliato nel deserto dello Yemen, bendato in ginocchio da un carnefice mascherato che brandisce il mitra davanti una webcam, ordinandomi a cantilena: confessa infedele, confessa. Ma che?, mi chiedo rinsavendo con uno sforzo di cinico realismo, ma chi mi si fila? Ne incontro ogni giorno a decine sotto casa, a prima vista tutti potenziali terroristi, che tengono lo sguardo basso, come chi non vuole attirare attenzione e che - chiaramente, aggiungerei- vuole e chiede solo di farsi i fatti propri. Entrambi nella propria metà della barricata, la propria vita, i propri barbieri e fruttivendoli, la propria direzione sul marciapiede: la mia convivenza con i musulmani, mi rendo conto, è tutta su questo presupposto e in questo si risolve. Eppure, a farci caso, siamo da sempre un Paese di paesi, come Roma è metropoli di rioni, affollata di coatti- si chiamano-, ognuno costretto nel proprio ristretto ambito di facce conosciute e affari di bottega, a convivere nella prossimità. Improvvisamente però è arrivata la multiculturalità che ci ha scoperti impreparati - come al solito-, indeboliti dalla progressiva clausura in cui ci siamo rintanati, di cui ci siamo ammalati e precocemente invecchiati. Nemmeno la curiosità di conoscere, di spiare di soppiatto una moschea per cercare un senso al cruciverba ordinato di scarpe che li aspettano all’uscita e al velo nero che nasconde le loro donne. Mi sono accorto, leggendo un post che spiegava le ragioni della scelta dello chador, che sono stato sempre arciconvinto che fosse segno e simbolo di mortificazione. Come una suora la sua clausura o il cilicio dei nostri tempi bui. Per concluderne che fra me e la sconosciuta che mi chiede amicizia, c’è un abisso. Io occidentale pure miscredente e lei musulmana e convinta. Le mie certezze di ragione e progressismo, la mia cultura di scetticismo verso fedi ultraterrene e possibili creatori interessati alle umane sorti, me la allontana di chilometri mentali prima che fisici. Se non fosse che, per quanto lontani, le nostre provenienze parlano una stessa lingua fatta di riti e credenze antiche, inspiegabili alla lente della logica come lo è una goccia d’olio in un pentolino d’acqua in cerca di fatture, l’aspettativa di un fantasma in sogno per un numero al lotto, un euro di devozione alla candela del santo, un segno della croce al passaggio di una bara, un lutto nero di contrizione alla memoria di un defunto. Gli stessi tramandati espedienti che l'animo usa per aiutarsi a vivere e che, volenti o nolenti, ci appartengono come noi apparteniamo a loro. Guardandomi nel mio ridicolo orticello, ho infine cliccato Accetta l’Amicizia, rispondendo al suo post. Dicendole che almeno i migliori fra noi non lo considerano un'arretratezza colpevole o dolosa, vogliono solo suggerirle il dubbio che un velo sappia di mortificazione, come abbiamo capito da passati di umiliazioni alle donne. Poi, vero, ci sono tanti imbecilli in mezzo a noi che rivendicano una presunta superiorità, tanto presunta da aver dimenticato che la nostra civiltà è nata sulle loro terre, che da lì veniamo anche noi. Così come me tanti furfanti anche fra loro usano la fede per farsi tornare i conti, sfruttando sacrifici e martiri per i loro comodi. La stessa gentaglia che noi conosciamo fin troppo bene perché ci è appartenuta e ci appartiene; sebbene noi non siamo stati, a differenza loro, discriminati nel mondo, additati tutti razzisti quando abbiamo discriminato, tutti terroristi negli anni recenti in cui lo eravamo, tutti fascisti quando acclamavamo compatti il balcone a piazza Venezia, tutti mafiosi e corrotti come e nonostante le cronache tutt'oggi certificano. Ecco, a voler cercare punti comuni, direi che l’assoggettamento a furfanti e cretini è un buon terreno di confronto, ce ne abbiamo entrambi da vendere. Per quanto anomalo, è un inizio. Per un dialogo che ci tocca e non già perché siamo buonisti come ci rimproverano celoduristi, casapoundini e cretini, perché vogliamo recedere dai diritti acquisiti cedendo alle loro minacce. E nemmeno per tenerceli buoni, come suggerisce qualche opportunista. Quanto piuttosto per conoscere quanto già è in mezzo a noi, presenze e non ectoplasmi a comprare la stessa verdura nello stesso fruttivendolo. Almeno per distinguere i riti che li accomuna tutti ovunque siano, almeno per sapere decifrare la preghiera delle sei anche al supermercato, dove -racconta in un post la mia nuova amica musulmana come realmente accaduto– al suo primo cenno i presenti si sono gelati al muro, già arresi al destino di restare vittime di un attentato kamikaze.