L'Ora moldava
- Architè…
- esordisce al telefono XXX, imprenditore edile extracomunitario, piccolo una decina d’anni fa quando l’ho conosciuto, cresciuto poi sbaragliando il mercato del noleggio dei ponteggi a prezzi stracciati. Mi invita in un capannone sul Gra, rilevato da uno dei tanti fallimenti degli impresari nazionali e mi mostra il suo ambizioso progetto di investimento. Quasi 5000 mq di discoteca, -la più grande d’Europa-, mi confessa inorgoglito da lucciconi di sogno agli occhi, mostrandomi sull’Ipad i modelli europei di ispirazione, che sembra aver visitato nei minimi dettagli. E’ già tutto fatto, palchi per concerti e dj, terrazze sopraelevate per vip, banchi bar, soffitti e pavimenti, da condire con scenografie laser, proiettori rotanti, amplificatori e maxi schermi al led. Concluso il peregrinaggio nella sconfinata landa ancora al rustico, a me, incredulo e complimentoso consulente, non resta che la fatidica domanda:
Sì, ma io come posso aiutarti?
– Architè – mi fa lui, sgomitandomi complice nel fianco, - mi ci vuole l’occhio tuo -, come un calvo che comprasse una parrucca per portarla a pettinarla al coiffeur. – manca una di quelle cosette che ti inventi tu- aggiunge in un italiano ancora incerto dopo anni in Italia, come Don Lurio o le gemelle Kessler alle interviste.
E qui, dopo la pausa di rito che ho imparato a riconoscere nella prossimità con imprenditori nostrani e non, - inutile dirti che soldi non ce ne sono-. C’è bisogno che a uno della mia esperienza spieghi quanto gli è costato tutto l’ambaradam? - Però – continua con una seconda pausa, cingendomi con il braccio forzuto le spalle e strizzandomi l’occhiolino, casomai non avessi colto il gesto di intesa – guarda qui! - e, introducendomi in un bugigattolo buio di mattoni forati senza intonaco, -questa è casa tua – Per me, garantisce con patto leonino, ci sarà sempre una bottiglia di champagne ghiacciata e tre, quattro moldave pronte…, e la stretta si fa avvinghiante nell’immaginare, disegnando col dito in aria come Fuksas la nuvola sul parabrezza della Scenic, il mio maschio prudore di compagnia. Fra le tante proposte d’incarico creativamente alternative collezionate in vent’anni di professione, questa si è rivelata illuminante. Non perché originale, l’avevo già provata in altre occasione. (Un albergatore romano una volta, sul cavalcavia Clodio, mostrandomi il suo castello abusivo al di sotto, in attesa di agibilità come Berlusconi con la Giunta Parlamentare, mi invitò infilandosi in un sottobraccio ambiguo agli occhi degli automobilisti che sfrecciavano alle spalle,:
- Architè, se me lo riesci a condonare ti chiudo dentro una jacuzzi con due negre che ti rifanno nuovo nuovo -)
Anche in quell’occasione colsi la medesima velleità reclusiva dell’offerente, che palesa l’immaginario di un imprenditore, certo che un architetto avverta l’impellenza di essere comunque rinchiuso, in vasca come su un divano, a consumare in clausura quanto evidentemente nella vita pubblica gli è precluso. Stavolta però la claustrofobica condizione da privè non ancora rifinito, resa più insopportabile dall’abbraccio stritolante del generoso imprenditore in ansia per una risposta che lo rassicuri del suo sogno da grandeur extracomunitaria, mi costringe a prendere urgente contezza di chi sono, cosa ci faccio in questo Paese e soprattutto quale possa essere il mio destino immediatamente prossimo. Nel buio costellato di lame di luce penetranti dagli interstizi dei forati nudi, nelle nubi di polvere di gesso che s’alzano a tratti come in un concerto dei Pooh, nel puzzo di gasolio dei muletti da pallet che gironzolano sul futuro sconfinato dance floor, coi piedi intrisi nel tappeto di sabbia su cui avrei dovuto poter tracciare a mo’ di Giotto la banca costruita attorno a me, mi sento solo e nudo, stretto a coorte a tutti i fratelli d’Italia, metaforicamente fissati nel privè rustico che attende l’imbellettamento.
La “soluzione urgente e creativa” è quanto si richiede ad ogni fratello, la medesima che, ben prima dell’omonima finanza di Tremonti, ci rende famosi nel mondo, per saper rinvenire nell’emergenza, fin dai tempi di Totò, la fontana di Trevi da vendere ai turisti, il goal del pareggio ai tempi supplementari. Eccola, alfine, la mia soluzione creativa: trasformare la disponibilità conto terzi delle avvenenti signorine che un giorno abiteranno questo privè, in crediti. Fissando una nuova e ufficiosa unità di scambio, “l’ora moldava”, eventualmente parcellizzata in mezza, un quarto o tre quarti, ovvero, moltiplicata in multipli. Cosicchè, pattuendo un gruzzolo di “ore moldave” di credito, potrei distribuire alla bisogna mezza moldava di prosciutto al pizzicarolo, un quarto di moldava di zucchine al fruttivendolo, una moldava di pieno al benzinaio, e via così agli altri miei creditori che a loro volta le scambierebbero per le loro necessità. Estendendo all’economia reale del paese il valore dell’”ora moldava” quale unità di scambio, (ragguagliata evidentemente all’ora di pari prestazione di un muscoloso africano, slavo o orientale per le donne che altrimenti ne resterebbero penalizzate), ognuno potrà decidere in completa autonomia se consumare il credito nel privè più prossimo o rimetterlo in circolo nel mercato. Senza uscire dalla moneta unica che rimarrebbe ufficialmente valida, galleggeremmo tutti in un’unica, festevole, soddisfacente partita di giro, che potrà chiamarsi Ruby, Jessika, Veronika, ma anche Amid o Mustafà.
O, per i patriotti più nostalgici, semplicemente, Iva.