Estate
Mai come quest’estate, calda – avverte la Protezione Civile - come non lo era dall’estinzione dei dinosauri, la città, come si dice a Roma, si sbraca. La gente vaga stralunata, senza apparente meta, uscita per cercare la zucchina, il carica batteria o la birretta che, a ben guardare a casa, nemmeno erano così indispensabili. Quelle domeniche da solo senza nemmeno un prete per chiacchierar risvegliano una comunanza pigra, una specie di solidarietà da sopravvissuti post atomici che rende accettabile lo scomposto, l’anziana signorona che si sventola le gambe con la sottana, la canotta chiazzata sotto le ascelle, la puzza di fogna dai tombini rinsecchiti. Si alza invece esponenzialmente la percentuale del sensuale, diventano appetibili corpi che d’inverno passavano inosservati se non addirittura evitati, ora che si scoprono a quarti, una spalla, una sopracoscia, un fondoschiena, dorati al sole come da un’impanatura di cotoletta, che ti fanno ripensare: ah, però. Ai semafori le rare macchine sono acquari tropicali semoventi che custodiscono pesci giganti già bolliti, dall’occhio spaesato. Che siano umani e non pesci te ne accorgi solo perché parlano, rigorosamente da soli, in viva voce allo sterzo o col filo dell’auricolare pendente da un orecchio. Ma non sbraitano come qualche mese fa, dimenandosi a pressione sul clacson come a mimare un atto sessuale contronatura verso la macchina davanti. Rincoglioniti dall’effetto serra che il povero condizionatore s’affatica a contrastare, abbattendosi invece sulla cervicale di cui ci ricorderemo stanotte, s’immalinconiscono, e, cedendo il passo alle lente coppie di badate e badanti sulle strisce, strascicano parole rare e misurate. Più manzi – si dice a Roma- perfino col turista nordico, disorientato da tanta cortesia, che aspetta sul marciapiede il tramonto in cerca dell’attimo fuggente per affrontare l’attraversamento, chiazzato impietosamente fucsia da un sole sconosciuto nella latitudine di provenienza. Li vedi con lo zainetto in fila indiana sull’Appia Antica, che sulla cartina avevano letto parco aspettandosi una passeggiata sotto i pini, come nei quadri di Gaugain, con gli ombrellini a fiorellini. E non un'arroventata corsia da gran premio dove attendere il bus tagliato dallo spoyl sistem dell’Atac, col condizionatore rigorosamente ingolfato che rimescola odori di cumino e curry ai timidi profumi alla rosa delle pallide anziane, avanzi di fughe di parenti al mare. Solo i cinesi resistono imperterriti, lindi e pallidi nei pantaloncini bianchi e nelle ciavatte Valleverde come tanti scarafaggi che si dicono in grado di sopravvivere a qualsiasi calamità naturale o artificiale, immarcescibili segnali di una vita che dell’adattamento al contesto ha fatto la sua ragion d’essere. Poi al tramonto, quando t’aspetteresti il ponentino benedetto che sbrezza fra i palazzi arroventati, gli sguardi si fanno meravigliati perché l’aria ribolle ferma sotto la cappa senza aliti di scampo: s’interrogano incrociandosi per strada, fin quanto possa considerarsi normale, quando sarà il momento di avvicinarsi a un pronto soccorso per allungare il respiro diventato troppo corto. Le ambulanze allungano il lamento della sirena che l’effetto doppler moltiplica, colonna sonora al film in bianco e nero dalla tivvù tenuta acceso per conciliare la pennichella sudata in poltrona. Il gatto sotto il ventilatore mi guarda come se volesse chiedermi cosa accade, che dice il meteo pioverà prima o poi o dovrà rassegnarsi a questo clima di buchi di ozono che la nostra specie – e non la loro, oggettivamente superiore – ha causato al pianeta, cambiandone le coordinate. Finchè finalmente la luna spegne il fervorio da formiche operaie e ci rassegna a quattro di spade sulle lenzuola, a finestre spalancate, sui balconi improvvisamente animati in brama di un filo di vento. Da dove si rincorrono le voci amplificate del pollame politico in tivvù, che chissà dove trova l’energia per strillarsi addosso, di Caronte che non darà tregua e della lunga lista di anniversari di stragi estive delle quali indignarsi ogni anno per non aver saputo trovarne responsabili. Che chissà per quale ragione le stragi più cruente si sono fatte d’estate. Come del resto le leggi più improbabili, le vessazioni più improvvisate, le previsioni più catastrofiche. Quando non c’è nemmeno il campionato di calcio a tenerci vigili, e ci sbrachiamo scomposti, accettandoci finalmente nelle nostre limitatezze, tutti livellati dalla forza superiore della Natura, sempre in procinto di incazzarsi con noi. Per questo l'estate più piena ha un suo fascino: che se restassimo così tutto l’anno, forse, senza nemmeno l’angustia del caldo, sarebbe una vita migliore.