Ken, il Bambolotto
Ken, il bambolotto Ken, ha la mia età. Comparve un giorno ai tempi di Malcom X, Janis Joplin e Cassius Clay dentro la scatola di Barbie. I creazionisti teorizzano per un'iniziativa di marketing del suo creatore che volle colmare l’istinto sognatore del giorno più bello nel futuro di ogni bimba. Gli evoluzionisti sono più propensi alla genesi per addizione da una molecola di Barbie, necessario complemento della scatola regalo, giustapposto a vestitini, pentoline e decappotabili da femminuccia. Comunque sia andata, una cosa è certa: in principio fu Barbie, non Ken. Se Eva ha dovuto sopportarsi il destino da gregario prodotto di costola maschile finalizzata a tenere compagnia ad Adamo, nel mondo dei bambolotti di fine anni 60 è stato l’opposto: Ken fu il badante, Barbie la badata. Come i miei compagnucci possono testimoniare, Ken non fu mai trastullo da maschietto, che, se proprio doveva giocare a bamboli, preferiva la pancia tartarugata e il vestiario postal market di Big Jim. Inadeguato agli istinti da testosterone, Ken non aveva accessori da guerriero, nè pugnali, nè cingoli, nè cinturoni. Fornito nudo come un verme, poteva indossare al massimo camicie e bermuda fiorate da vacanziero in Florida, sopportandosi gli schiaffetti di rimbrotto delle bambine che avevano ricevuto in dono la scatola completa per trasferire sul feticcio termoindurito le ansie imitate da mamme, zie e sorelle maggiori. Non solo. In più, poretto, fu da subito bersaglio dell'acidità femminista dei suoi tempi che, nel professare di essere propria, bollava di maschilismo deviato quell’aspetto da pariolino plasticoso, quella biondità sintetizzata da principino azzurro nel Duetto di Barbie. Costretto così, nella riprovazione generale, a sopportarsi i pettegolezzi delle sue aguzzine all’ora del tè, Ken agognava il suo virile alter ego, Big Jim accessoriato da Rambo che, nella cameretta del fratellino a fianco, s’arrampicava sulle foreste di scaffali con munizioni di ogni sorta. Nell’immaginario maschile Ken portava i segni di un’omosessualità latente: per stare in mezzo sempre e solo alle femminucce, fra cucine in miniature e gossip da dopo scuola, tanto maschio non poteva essere. Ma Ken non può dirsi gay. Piuttosto metrosexual, indifferente al posizionamento di genere nella categorizzazione biologica umana, si direbbe anticipatore, secondo le più recenti teorie sociologiche, delle tendenze del futuro prossimo. Del resto quello scivolo di plastica nascosto fra le gambe non gli ha mai consentito attribuzioni univoche, quanto piuttosto una generica frustrazione da eunuco alla corte di Barbie e delle sue amazzoni in erba. E, seppure il suo creatore volle disegnargli sul viso un sorriso accomodante, la sua condizione di reietto a maschiucci e femministe e di vittima di mantidini religiose, rese quel sorriso più un ghigno di malinconica frustrazione che un'espressione di allegra spensieratezza. Ma poi vennero gli anni 90 e il suo rivale Big Jim, dopo un periodo di inflazionata virilità combattiva, smise di essere prodotto. Si autoestinse per insondabili leggi di marketing che vollero al bando l'iperattivismo violento per evitare di alimentare nei più piccoli pericolose devianze da bullo. Ken rimase solo, unico baluardo di genere nel mondo di plastica, tutto al femminile. I suoi colleghi smisero le sembianze umane per diventare ninja con superpoteri ultraterreni, robot accessoriati di appendici armate, oppure mangoidi chiomati a ciuffi ribelli dalle fattezze orientali. Il suo creatore provò a cambiargli look inseguendo le tendenze del momento in rapida evoluzione. Fu un pò Ridge in tight ai tempi di Beautiful, tamarretto periferico per somigliare a Nino D’Angelo, fotomodello localizzato diverso in ogni contesto geografico. Fino a vestire le sembianze modaiole di un tronista della Defilippi, mortificando nella plastica lo sguardo beota e il ciuffo ingellato che distraeva il pubblico dalla mancanza di attributi. Uno, nessuno, centomila, Ken, nel relativismo destrutturante di fine secolo, ha definitivamente perso la sua identità. Ridotto a complemento di una bamboletta in caduta libera nelle vendite, svilita anch’ella ad accessorio treperdue nei paradisi di giocattoli elettronici di nuova generazione. Vittima del revisionismo rivoluzionario di un tempo e poi della decadenza dei costumi occidentali, Ken non è mai stato davvero un cult. Ma, a onor di verità, gli va riconosciuto un merito: per quanto vilipeso, oltraggiato, destrutturato, mortificato, Ken è l’unico bambolotto sopravvissuto agli anni. Ormai cinquantenne, separato dalla scatola della compagna ormai in preda ad ansie da senilità precoce, resiste negli scatoloni dei ricordi d’infanzia in soffitta, in attesa di disperdere le sue ceneri tossiche in qualche discarica non autorizzata della camorra.