top of page

Sicilia, Italia


La Sicilia è terra strana, unica non solo nel suo genere. Quando ci arrivi non si limita ad accoglierti, ti seduce e lentamente ti cattura, lasciandoti stordito all’ombra della canicola, stremato al tavolo di un bar, sfinito su uno scoglio a mare. Se davvero ci fu un Eden dal quale cademmo, sicuro era qui, fra aranci, piazzette di pietra e granulose di mandorle: mai come qui, fra tante meraviglie, prelibatezze e ben di Dio, viene da chiederti perché mai, se l’eden fosse stato questo, Adamo avrebbe dovuto perderlo per una stupida mela. Certo, non è solo qui che trovi la bellezza di cui l’Italia è ricca, mari cristallini, tramonti mozzafiato, capolavori d’arte, ospitalità, sapori, odori, colori, sapere; è che qui tutto questo si concentra in uno stesso spazio e in un medesimo tempo, rapendoti ad ogni passo di un’emozione nuova. Fino a farti chiedere, quando è il momento di lasciarla, perché non ritagliarti un tuo angolo di paradiso fra fichi d’india riarsi al sole, una casetta abusiva sulla spiaggia come Montalbano, e fanculo tutto il resto. Ma. Ma se fosse solo questo, se la Sicilia fosse solo la meraviglia che ti rapisce, non sarebbe un posto strano. In un incomprensibile paradosso di contraddizioni invece, proprio come Adamo che in quell’Eden di meraviglie si perde per quell'insignificante mela, la stessa terra che ti innamora ti sa sorprendere di miserie altrettanto uniche quando ti svela il suo rovescio, l’arroganza con la quale di tanta bellezza sa fare carne da porco. I siciliani sono sorprendenti come la terra che li ospita, istrionici, passionali e seducenti come nessun’altra gente, geniali di una creatività innata e di una sensibilità generosa che non conosce pari. Ma poi, vivendoli più del tempo di una vacanza, approssimandoti al Potere nelle sue multiformi e più periferiche espressioni, puoi scoprirli meschini come solo il loro Pirandello -che puoi davvero capire solo standoci - li ha raccontati, maschere grottesche imprigionate in una dualità ambigua che li rende vittime e carnefici di loro stessi. Mafiosa non è tanto l’organizzazione verticistica di malaffare che la secolare assenza dello stato ha lasciato a presidiare, bensì l’attitudine diffusa dal più alto dirigente all’ultimo custode che privilegia chi è dentro e spaventa della sua clausura chi ne è fuori. Il ricatto intangibile del potere è invalicabile come il muro di recinzione di una villa di mafiosi, costellato di fili spinati di non detto ma fatto capire, di sorrisi a mezza bocca, di sguardi bassi, suggerimenti amichevoli e promesse marinaie; e soprattutto di lascia correre, futtitinni cumpà. A chi nel sistema è accomodato a vario livello (ammiscatu come nenti cu nuddu), spetta il privilegio impunito che non ha bisogno di giustificarsi, la tranquilla indifferenza alle regole. Che ci sono – eccome se ci sono – ma che valgono per chi, siciliano o ospite che sia, è o si è tenuto fuori dal gioco. Per questi la norma si fa barocca, arzigogolandosi come le volute dei cornicioni o le ringhiere dei balconi liberty sulle piazze, dove prendere il fresco guardando il mare invidiati dai passanti giù di sotto affranti dalla canicola. Chi non se l’è sentita di ammiscarsi è emigrato via o, se è rimasto senza farsi fagocitare dalla legge non scritta, si è costretto a un destino di eroismi quotidiani, prigioniero dei suoi stessi principi, dai quali non può sgarrare nemmeno un momento. Perché a pagare anche per chi non ha mai pagato è certamente chi ha voluto rimarcare la sua coerenza, chi non si è assoggettato al costume, non ha elemosinato la raccomandazione, non ha cercato la scorciatoia, non è entrato nelle grazie del sistema. Diceva Danilo Dolci, grande figura che in Sicilia ha operato attivamente per morirne solo osteggiato da tutti, la mafia non ostacola chi tenta iniziative virtuose, non blocca la buona volontà. Lascia che si compino, aspetta il momento buono per infiltrarsi, “come l’aria che trova i suoi spifferi anche nelle finestre più sigillate”, per gestirne il lucro illecito che se ne può produrre. Cosicchè la terra che fu magna fin dall’antichità, si rassegna ad un immobilismo masochista, a un fatalismo immutabile che è gene nella tradizione più popolare: trasforma la stessa fede religiosa in una superstizione senza scampo, l’ossequio assoluto al santo protettore, mediatore di grazie verso l’onnipotente. Per tanti poeti e artisti, tante generose figure storiche che hanno riempito di eroismi e martiri le memorie patrie, l’isola ha partorito altrettanti mentecatti forti di un plebiscitario consenso omertoso e fidato, basato sullo spiccio tornaconto personale, il piccolo privilegio dentro cui accomodarsi. Ma, diceva Leonardo Sciascia, la Sicilia non è un’enclave isolata dal continente perchè, nelle sue più paradossali contraddizioni come nelle sue più invidiabile ricchezze, è l’Italia stessa. Il patto con lo Stato – insegnava Sciascia- non ha avuto bisogno di baci e abbracci al mafioso di turno, di accordi a tavolino fra cupole istituzionali e illegali perché potere romano e potere mafioso sono cresciuti fianco a fianco, giustificandosi e alimentandosi reciprocamente. E le vicende giudiziarie di questi anni, da Roma a Milano a Venezia, gli danno ragione. La Sicilia è solo l’estrema periferia della penisola, la propaggine gettata nel Mediterraneo come avamposto lasciato alle scorribande di ogni tempo. E, come ogni periferia, racconta il sistema di cui è parte esaltandone esponenzialmente i caratteri e le contraddizioni, mostrando più bella la sua bellezza e più infime le sue bassezze, più accoglienti le lampeduse che salvano dal mare i disperati e più orrende le mafie parassite che su quella generosità innata lucrano. La Sicilia, come l’Italia, è paradiso invidiabile e invidiato. Che forse proprio perché tanto paradiso ha bisogno di andare a cercare nelle sue più profonde viscere il suo stesso contraltare, come se fosse insopportabile il tanto che c’è. Forse per questo, perché ogni eden presuppone il suo inferno, Adamo si perse per quella maledetta mela che, col senno di poi, bastava spostarsi in Val Gardena per trovarne a ceste. A quest’ora ce ne saremmo stati beati, coperti da foglie di fico, discettando sulla poesia, sorseggiando dalla cannuccia una granita di gelsi. Nella foto: Danilo Dolci, durante uno sciopero per l’acqua a Roccamena, 1964

bottom of page