Soli
C’è chi ci vede un preciso disegno strategico, una sorta di piano studiato a tavolino fra potenti che complottano per parcellizzare il dissenso e perseguire senza ostacoli il tornaconto di casta. C’è chi la intende più come perversa evoluzione del consumismo che, per funzionare al meglio, ha bisogno di isolare gli individui in monadi frenetiche, portate a sfogare l’ansia di vivere con l’acquisto dell’ultimo e più ambito prodotto di mercato. C’è chi la crede inevitabile conseguenza dell’affannosa affermazione di sé nel rutilante mondo del successo che promette a ciascuno, a patto di sgomitare per far fuori la concorrenza, i cinque minuti di eccezionalità che Warhol non negava a nessuno. C’è chi dà la colpa all’attrazione dell’universo virtuale che ci ha trasformati in tanti monitor chiusi nelle proprie case, illusi di essere connessi senza necessità di esporsi a una moltitudine di contatti, esponenzialmente infiniti nel numero ma sempre più prossimi allo zero nell’intimità e nella comunanza. Fatto sta che, possono non conoscersene le ragioni, ma certo è che da qualche tempo siamo diventati tutti più soli. E, di conseguenza, sempre più ammalati di solitudine. Incapaci della condivisione minima sulla quale l’umanità è cresciuta, contando sull’empatia verso i propri simili che solo l’appartenenza riesce a garantire, sulla voglia di costruire e sulla capacità di incidere nel proprio contesto che, da soli, è mortificata allo zero. Le migliori conquiste sociali, culturali ed umane sono state prodotto di elaborazioni, dibattiti e contrasti, successi di gruppi e movimenti che hanno radunato attorno a un tavolo, spesso segreto, le menti migliori del loro tempo. A volte invece nemmeno si vedevano, uniti solo dal flebile filo di una fitta corrispondenza di pensieri, espedienti, esperienze; o solo vedute, solo una stessa irrinunciabile ricerca di risposte alle domande universali e senza tempo dell’uomo. Il movimento, che lo dice la parola stessa, è movimento, da soli si chiama masturbazione. Che, per quanto salvifica nell’immediato, a lungo andare- dicevano le nonne - rende ciechi. La solitudine è un valore solo come momentanea vacanza dalle nevrosi della convivenza, dalla confusione e dalle costrizioni dell’affollamento quotidiano. I geni solitari, quando ci sono stati, (che, è vero, i colpi di genio non vengono mai al gruppo) non sono mai stati insiemi vuoti distaccati dal loro tempo: le loro stesse creazioni sono nate e diventate universali solo grazie ad amici, colleghi, discepoli che le hanno fatte conoscere, riprese e alimentate fino a, a volte anche contraddicendole, maturarle in altro. Di questo, non si sa perché, certo è che oggi non sembriamo più capaci. Impossibilitati a incontrarci ad un appuntamento, restii a condividere un progetto, convinti già prima di smuovere il culo dalla sedia che non troveremo nulla di interessante, che già non abbiamo visto, sentito o vissuto. E che, siamo certi, non porterà mai – per come va il mondo – ad alcun risultato apprezzabile. Per questo siamo fermi, appaludati in uno stagno maleodorante da cui emergono di tanto in tanto solo vecchi cadaveri o moderni boli di fango. Niente più libri che non scadano l’anno a venire, niente più film davvero visionari, niente più arte che ci tocchi le corde più intime, niente più progetti a cui credere, pensieri di cui innamorarsi, utopie per cui morire. Come se già fosse stato detto tutto, come se non avessimo più risposte alle domande senza tempo o, peggio, non avessimo nemmeno più domande da porci. (porci nel senso del verbo porsi) Chiusi in un presente che si limita all’ora e che usa la memoria solo per rifugiarsi nella nostalgia, ci deprimiamo pensando di essere i soli a deprimerci, galleggiando nel micragnoso quotidiano che ha paura di guardare alle lancette dell’impietoso orologio. Perchè la solitudine è contraria alle nostre istanze più ancestrali, alla nostra stessa natura biologica visto che, come i cani, i delfini, i bisonti o gli elefanti e le giraffe, siamo animali da branco. Che però, a differenza dei bisonti e delle giraffe, se non educati a placarci l’angoscia connaturata alla nostra finitezza come ci insegnarono Schopenahuer, Kirkegaard, Heidegger e Sartre, nel branco sappiamo solo essere lupi agli uomini, ansiosi di esprimere la violenza, l’arroganza, l’intolleranza e gli istinti più leghisti di cui siamo capaci. Un sovraffollato condominio di pecore nevrotiche fa comodo solo al Potere del divide et impera, che può prosperare indisturbato, spogliandoci, nell’indistinto coro di protesta di cicale e fra le spurie strilla di qualche capotribù e del suo gregge, di quanto di buono e utile abbiamo ereditato.