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La carne


Ne avevano sopportato per millenni di soprusi e sacrifici.

Tosate, scuoiate, munte, schiavizzate, recluse, recintate, ammassate, costrette a frustate a fatiche improbe, gonfiate di ormoni a capofitto nel mangime e poi comunque, alla fine, macellate per soddisfare le umane esigenze.

Con loro l’Etica non si applicava: per postulato primigenio le bestie non hanno anima e questa certezza liberava l’essere umano da qualunque responsabilità nei loro confronti. Non fu mai riprovevole sottometterle o anche maltrattarle: la loro accertata inferiorità le metteva naturalmente a disposizione dei bisogni, delle voglie e dei capricci della specie umana più evoluta. Esse stesse del resto non si facevano scrupoli a difendersi o a cacciare senza pietà prede, concorrenti e nemici, ragion per cui soffrire era la loro natura. In più puzzavano, portavano malattie ed erano idiote. Non era dovuto porsi il problema dal loro punto di vista e quindi, a parte animalisti o vegani fondamentalisti che la buttavano sul patetico, per tutti la Carne si generava di suo come la sintesi clorofilliana nelle piante. Finchè un fatidico giorno un potere alieno intergalattico scese sulla Terra per portare in giudizio extraplanetario l’umanità, colpevole, secondo l’accusa, di atteggiamenti spregiudicatamente malvagi e ingiustificatamente iniqui verso le specie più deboli del pianeta. Erano nel tempo venute meno – ci accusò la procura interstellare – anche le giustificazioni dei bisogni di nutrizione e fatica fisica che originariamente i primitivi dovettero necessariamente risolvere col contributo animale.

Le macchine e le scoperte scientifiche umane avrebbero potuto far tirare un sospiro di sollievo alle povere bestie, che invece riscontrarono un accanimento umano solo più sofisticato e allargato a vasta scala. L’olocausto di ovini, bovini, porci, conigli, rane, quaglie, caprioli, sogliole, tonni e faggiani serviva sulle tavole di qualsiasi ricorrenza, occasione o solo umano sfizio, in tutta la variegata disponibilità che l’industria prosperata nel settore sapeva offrire. Perfino quando tutto st’accanimento si rivelò un boomerang e la scienza umana si accorse - risvegliandosi una mattina di autunno - che le suppostone di paste di carni gonfiate di estrogeni che producevamo per ingurgitarne in quantità bibliche, ci facevano male. Nel contrappasso giustizialista del destino cosmico, si coprì che più ne mangiavamo, più avevamo bisogno di gonfiarne la produzione, più diventavano letali per l’organismo umano. Per concluderne che la carne, - come il latte e l’università che Woody Allen annoverarva fra le cose che i nostri genitori ci ammonivano facessero bene – fu, al pari delle altre droghe, vietata come letale per l’organismo umano. Che scoperta – tentarono di difendersi gli umani– la morte sarebbe comunque la nostra fine, pure se crescessimo allevati con bibitoni di verdure e frutta. Che seppure allontanassimo da noi droghe e piaceri distruttivi, ci ritroveremmo sempre-verdi hilander intristiti a cercare comunque altri espedienti per finirci. Il problema infatti – sentenziò la suprema corte intergalattica- non sta nella fine ma nel durante. Che vivere meglio è la soluzione, sia per l’Uomo che però anche per le bestie. Che non sta scritto da nessuna parte, debbano stare a nostra disposizione, ogni embolo di sfizio ci venisse in animo di toglierci. Fummo così condannati dai giudici a vivere, a periodi alterni, da bestie.

Ridotti a trastullo da affetti altrove negati, mortificati con vezzeggiativi cretini tipo Fuffy e Pippy, spelati in un rosa carne ributtante e rivestiti di vezzosi golfini in lana sbracciati. Condotti a fare pipì a comando. E se, nel passeggio per la minzione, avessimo incrociato un avvenente esemplare della nostra specie al guinzaglio di altro padrone o tentato un approccio con guaito seduttivo, saremmo stati zittiti, mortificati e strattonati via. Il nostro accoppiamento programmato per il week end, con un esemplare di laboratorio infiocchettato per l’occasione, nano, con la faccia schiacciata, le gambe corte e le tette fuse in un solo capezzolo, per generare una nuova razza gradevole ai padroni, per le sfilate di umani di capodanno.

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