Tor Taghesci
Figura mitica di antica guerra mongola, fumetto manga o scalzo maestro di arti marziali di Tarantino, Taghesci (e non Takeshi) Kitano è nella prosaica quotidianità di Torpignattara solo raro se non unico immigrato cinese barbone. Che il nome sia davvero questo o che gli sia stato affibbiato dal cinico esotismo romano è mistero insondabile, come tanti altri che lo riguardano. Di età indefinibile, fra 35 e 50, Taghesci ha chioma folta sparata in tutte le direzioni, proprio come un personaggio manga, e un filo di barba curata con pizzetto orientale. Veste un pantalone largo e corto, tenuto in vita proprio come una cintura nera di judo, una camicia coreana aperta sul petto glabro e raramente un paio di babbucce di stoffa, a mo’ del saggio maestro di Karate Kid, passa la cera, togli la cera. Non ha interazioni col quartiere, è solo parte del paesaggio come il tram sulla Casilina, la bancarella delle cipolle di Tropea il venerdi o le trans che comprano reggicalze di finto pizzo dai cinesi. Raramente passeggia per le strade, più frequentemente appare e scompare d’improvviso; quando lo fa è per andare o tornare da un posto, generalmente per rimediare chissà da chi la sua stagnola di riso basmati. Che mangia appozzando con le mani, seduto sugli scalini di un portone, accovacciato dietro un cassonetto strabordante di rifiuti dove, a pasto consumato, orina in piedi dietro un frigorifero. Non chiede elemosina come la ragazza rom pluri-figli appoggiata allo stipite del bar, non si fa come il gruppetto di tossici che nasconde la roba nei cassonetti di via baracca, non vende avocadi come i fruttivendoli bengalesi sparsi per il quartiere, non taglia i capelli come i barbieri pakistani che a otto euro dopo ti massaggiano testa e spalle. E soprattutto è alieno agli stessi suoi connazionali intenti notte e giorno a vendere qualcosa, bene o servizio che sia. Quando le impellenze biologiche sono state espletate si sdraia a riposare di traverso sul marciapiede, badando a sceglierne di larghi, in modo da non essere d’intralcio ai passanti e quindi interrotto nel riposo. Ha nel suo incedere però, qualcosa di costumato e minimale come solo gli orientali sanno averne, che gli rendono un nonsochè di regale. Quando vuole mettersi a riposo, fosse anche sotto un cassonetto, stende una stuoia, adagia le scarpe in fondo rigorosamente affiancate e solo dopo aver arrotolato parte della stuoia a mo’ di cuscino, si sdraia. Composto, simmetrico e stirato, nulla a che vedere con i disordinati barboni nostrani, è come se ce l’avesse poggiato un architetto maniaco del riporto. Non si sa che lingua parli perché nessuno l’ha mai sentito, forse è muto o solo indifferente al dialogo. I residenti, passandogli accanto, lo guardano e fanno battute da romani, ahò oggi se magna i nudols, stamattina me pare lavato, ma ndo lo pija sto cazzo de riso. I suoi connazionali, ammesso che dai tratti somatici possa rintracciarsi una consanguineità con i cinesi immigrati, lo tengono distante. Per un cinese un barbone è un errore del matrix, un’evenienza scomoda, un’inconcepibile attitudine da perdente reietto. Da noi almeno, i cinesi non hanno vita sociale distinta dal lavoro, né tendono nella loro fatica quotidiana all’affermazione del singolo. Vivono in funzione di un unico obiettivo, la celebrazione di un’unica religione, la Madre Patria Cina, che, come un virus inarrestabile deve diffondersi a colonizzare le società meno evolute. Come la nostra, sottoprodotto spurio, a loro modo di vedere, del capitalismo meno riuscito. Assomigliano, a voler trovare una similitudine in natura, alle formiche o alle api, strenue lavoratrici e accumulatrici di nutrimento da riservare alle larve. Che poi crescendo saranno altrettanto operaie senza diritti e senza contratto, immolate per la causa della perpetrazione della specie. I cinesi non entrano in alcuna forma di empatia con i loro ospiti, se non è funzionale a qualcosa in quel momento, vendere un tubetto di colla, ottenere un’autorizzazione, evitare i contrasti, accumulare clienti. Per questo generalmente sorridono. Oppure, se vanno per i fatti loro, sputano, dopo aver risucchiato il catarro in gola con rumorosa attitudine, come a voler rimarcare, contaminandola, il disprezzo per la terra che li ha accolti. Al massimo, finito il lavoro, giocano d’azzardo, segretamente, urlando e fumando negli scantinati recuperati e sottratti ai topi e agli scarafaggi del quartiere. Che non muoiano, perché non si sono mai visti funerali cinesi, è ovviamente leggenda metropolitana, ma una cosa è certa: i cinesi anziani, malati o reietti non si vedono in giro, almeno qui da noi, sono probabilmente un prodotto di scarto da rimandare in patria. Per questo la figura di Taghesci, raro barbone cinese, è singolare ed enigmatica, a tratti vagamente inquietante. Per non essere stato rispedito su una nave o evaporato dalla canna fumaria di un ristorante cinese dalla mafia orientale, attenta a non attirare attenzioni, deve nascondere un segreto: essere forse un mammasantissima a mandorla caduto in depressione che nessuno si azzarda a toccare, un maestro di arti orientali in incognito che di notte passa la cera, una spia dei servizi segreti orientali che tiene sotto controllo la comunità. O davvero solo un errore del matrix, l’eccezione alla regola che viene lasciata essere per mostrare che rischi corre chi si chiama fuori, anticorpo del virus che vuole spandersi disseminando riso basmati e involtini primavera in ogni dove. Oppure, per i più apocalittici, anticipatore di future decadenze, Tagashi è il campanello d’allarme del futuro, la cassandra gialla che preannuncia l’imbastardimento della razza orientale, contaminata dal contagioso, barbaro etrno fancazzismo capitolino.