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La città e il suo retro


Ogni città, anche la più ordinata e composta, in ogni tempo, per ogni quartiere impeccabile da mostrare ai turisti ha il suo retrobottega da nascondere, il backyardin cui accatastare l’indicibile.

Ovviamente infestato da reietti di ogni tipo: è il posto più abbordabile per approdare in città, sbarcarci il lunario, rimediare un ricovero, tentare un lavoretto nero, incassare dal malaffare per investire nelle zone in.

Trastevere a Roma, Montmartre a Parigi, Barrio a Lisbona, Harlem a New York e centinaia di esempi in tutte le città del mondo, sono stati i primi quartieri malfamati a trasformarsi in zone cool, non appena il mercato ha voluto -o solo compreso- il lucro che poteva generarsene.

In pochi decenni i ghetti un tempo più invivibili, i vicoli più proibiti, le piazzette più malsane delle più belle città, perfino le latrine sui balconi hanno progressivamente assunto un appeal prima inimmaginabile, un valore sproporzionato al loro stato e alle condizioni di vita che ospitavano. Dai più centrali ai più periferici, gli agglomerati popolari di accattoni, uccellacci e puttane diventavano il feticcio da andare ad adorare; il mostruoso, l’araffazzonato, il claustrofobico, il triviale, il misero, il minaccioso eretti a meta obbligata fuori il tracciato convenzionale.

Evoluti da immaginario di fuga a luoghi di esplorazione, poi di ritrovo e infine di residenza delle èlite urbane.

A Roma, saturata Trastevere, è toccato a Garbatella, Testaccio, San Lorenzo, il Pigneto e via, spostando continuamente il confine con forza centrifuga, il mutevole pied-a-ter urbano dove la borghesia più all’avanguardia scendeva ad annusare il tanfo della vita.

E, di conseguenza, a seguire l’elitè che fa tendenza, masse di neo consumatori proiettati nella ricerca, dentro le cadenti catapecchie lasciate intonse, del locale più di tendenza, del negozietto più esclusivo, del loftino più fighetto, della meta più cliccata su tripadvisor.

Comprando, e a caro prezzo, il valore di una supposta autenticità. O almeno il suo mito, o il suo ricordo.

La città ha cominciato a valere per la narrazione che se ne fa.

E’ desiderata se supposta vera, se racconta, pure nelle sue contraddizioni più pruriginose o abiette, la vita che ci è passata, se ne conserva le tracce in una piazzetta angusta, nel fornaio Mario sotto casa, nel mercato il sabato, l’edicola la mattina, il bar del bicchiere la sera. La donnina nel seminterrato a sinistra, lo spaccino nel vicoletto a destra.

San Lorenzo a Roma è stato esattamente questo, antico borgo delle dogane ferroviarie e delle case degli enti, puzzolente di pajata, violento e zeppo di cortellari, diventato in pochi anni quartiere cool per artisti, studenti, giovani e alternativi. Le catapecchie delle bisnonne trasformate in macchine da soldi un tanto a letto, rendita del mattone che – per quanto abbandonato ai guasti del tempo-, diventava dote insperata per gli eredi dei borgatari fuggiti altrove, lontano da quel letamaio che oggi sembrava diventare oro.

Alla massa di neo residenti, ovviamente, sono seguiti dinamiche e interessi di ogni tipo, leciti e non, a corteggiare possibili clienti o a piazzarci scaltri mediatori, o solo a procurarci manodopera residua, pusher, lavavetri, portafiori e vendicartine per offrire ai bohemien delle paghette del week end ogni grande bellezza capitolina.

Quella di S.Lorenzo è storia di immigrazioni, interne ed esterne al Paese, di antichi subproletari oggi ripuliti, di figli delle province del sud venuti ad evolversi, di disperati di tutto il pianeta che vi cercano rifugio e di indigeni coatti dalle mode che nella capitale sono il motore,

Questo minestrone di storie e anime lo ha reso un luogo esclusivo per i cercatori del cool, quella nicchia di mercato che al mercato faceva comodo così.

Finchè, la crisi. Le dinamiche si complicano, l’impoverimento mischia nuovi e vecchi residenti ai fuorisede, fa sparire presidi e servizi pubblici, spegne le luci e le sirene delle pantere, lascia le case, abbassa le saracinesche, costringe i prezzi al ribasso. Offre manodopera sempre più disponibile alla criminalità che si spande ed evolve, investe nei ribassi, riempie gli interstizi, lucra nei vizi sempre verdi, cibo, alcol, droghe.

Così a S.Lorenzo ora fa paura passarci. Nei vicoli bui, sporchi, con le saracinesche chiuse e deserti come se il fantasma dell’antico rione volesse riappropriarsi del suo passato, i disperati si moltiplicano, aumenta la concorrenza, si riducono i margini, s’incattiviscono, s’impadroniscono del quartiere.

Sembrerebbe senza capacità di controllo, la città resta muta.

Palazzi occupati a S.Lorenzo ce ne sono da quando esiste, con le loro leggi e gerarchie, in costante equilibrio fra miseria e malaffare, fanno da sé per non attirarsi l’attenzione della città, sotto il costante sguardo del controllo finché ce ne è stato, lì dove partire per cercare ogni mela marcia.

Demolirli?

Certo, come no, amputare in necrosi è sempre una soluzione. E’ solo la domanda che viene subito dopo a preoccupare, è il dopo che fa la differenza.

Il degrado non nasce da un palazzo occupato, è il contrario semmai.

Nasce dall’assenza di vita: finchè c’è l’equilibrio fra la città e il suo retrobottega il controllo tiene ma se la vita si spegne, la città s’incupisce perdendo il presidio sulle sue più mostruose escandescenze.

Aprite, invece di chiudere. Riqualificate, invece di demolire. Gestite, invece di sgomberare. Promuovete invece di vietare. Sostenete invece di sanzionare.

Lasciateci bere una birra in santa pace, invece di rinchiuderci, soli, a tu per tu con la bottiglia presa al bangla alle 20,59, appena prima del coprifuoco.


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